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Un'Italia più giusta

Aggiornamento: 17 mag 2023

Una riflessione sui referendum del 12 giugno


Il 12 giugno 2022 milioni di italiani sono andati alle urne per votare il 74°, il 75°, il 76°, il 77° e il 78° referendum della storia repubblicana; ma non erano tutti i milioni che si speravano. I quesiti referendari incentrati sulla giustizia hanno infatti registrato uno storico flop, ottenendo un’affluenza di poco superiore al 20%. Nondimeno, lo strumento referendario rimane il punto di riferimento per la democrazia diretta in Italia; è perciò giusto e necessario informarsi nel modo più corretto ed esaustivo possibile a riguardo. Tale era il fine dell’evento “Un’Italia più giusta”, tenutosi il 9 giugno alle 21.15 nella sede legnanese di Confcommercio. L’avv. Samuele Genoni, presidente della Camera Penale di Busto Arsizio, e il dott. Massimo De Filippo, Sostituto Procuratore presso il tribunale della stessa città, sono venuti in nostro aiuto: il primo per esporre le ragioni del Sì, il secondo per esporre quelle del No. A ciascuno sono stati dati cinque minuti per argomentare e un minuto per replicare (qualora avessero parlato per primi) per ogni quesito. I preziosi spunti da loro offertici sono alla base della seguente analisi, che vuole capire cosa il futuro ha in serbo per le tematiche trattate nei quesiti referendari e come si possono interpretare i verdetti delle urne.


Il primo quesito chiedeva l’abrogazione del decreto Severino, volto a introdurre un automatismo per escludere dagli organi esecutivi e di rappresentanza i politici corrotti. In particolare, esso stabilisce l’incandidabilità, l’ineleggibilità o la decadenza della carica per i colpevoli di reati di allarme sociale o contro la pubblica amministrazione con pene superiori ai due anni e di reati non colposi con pene superiori a quattro anni. La parte più controversa è però quella che prevedeva la sospensione automatica dei condannati in via non definitiva dalle cariche elettive negli enti regionali e locali. Dati i risultati del referendum, il decreto rimarrà in vigore senza subire modifiche.

Da un lato, ciò garantirà la continuità di una delle più importanti misure anti-corruzione degli ultimi anni, conservandone intatta l’efficacia nel garantire candidati “candidi” (almeno a detta dei suoi sostenitori); dall’altro, alcuni rilevano una tensione tra la misura in questione e i principi della presunzione d’innocenza e del fine rieducativo della pena: secondo loro si va infatti a privare un individuo di un diritto fondamentale prima che questi abbia avuto l’opportunità di ricevere un giudizio esaustivo e definitivo.

Alle urne pare essere prevalsa la prima tesi: sebbene il Sì abbia portato a casa la vittoria col 53,97% dei voti a favore, l’alta percentuale ottenuta dal No, combinata con l’ormai diffusa tattica dell’astensionismo, suggerirebbe un parere contrario del popolo all’abrogazione del decreto Severino. Infatti, molti dei critici ai quesiti referendari hanno deciso di astenersi nel tentativo di impedire al quesito di raggiungere il quorum: per quanto criticabile, questa pratica è un fenomeno da tenere in considerazione per una valutazione critica dei risultati del referendum.


Il secondo quesito chiedeva invece di porre delle limitazioni alle misura cautelari. Esse sono state e saranno applicabili solo in caso si verifichino le seguenti condizioni: l’accusa di un reato grave, la presenza di gravi indizi di colpevolezza e il rischio di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato.

Il referendum mirava a rimuovere proprio quest’ultima opzione per arginare l’abuso che, a detta dei sostenitori del Sì, è stato fatto di queste misure. Non solo esse detengono ingiustamente individui innocenti, o comunque non condannati in via definitiva, ma esse sono anche usate dai magistrati per ottenere confessioni o prove altrimenti non ottenibili. Chi invece si oppone a una modifica dello status quo pone l’enfasi sulle vittime, che non possono aspettare i tempi del giudizio definitivo per essere protette dai loro offensori, e sulle molteplici verifiche eseguite sul giudizio di cautela emesso dal giudice.

Anche in questo caso il Sì ha incassato una sconfitta morale: pur vincendo sulla carta col 56,12% esso ha trovato molti più oppositori del previsto alle urne, venendo addirittura sconfitto in Liguria e Trentino. A far pendere la bilancia in favore del No sono stati probabilmente i reati lasciati scoperti dall’abrogazione, come lo spaccio, il furto d’appartamento e lo stalking, la cui limitazione è cara al centrodestra, principale promotore politico del referendum.


Il terzo quesito chiedeva invece la separazione delle funzioni dei magistrati. Al momento, la legge consente di effettuare quattro passaggi dalla funzione giudicante a quella requirente, purché si presenti la corretta documentazione e si cambi distretto in cui si opera. La riforma Cartabia li ridurrebbe a uno, a cui se ne può sommare un altro in presenza di determinate condizioni; il referendum mirava invece ad azzerarli.

Per comprendere le posizioni nel dibattito è però necessario fare un piccolo excursus sulla relazione tra PM, giudice e avvocato nei processi. Comunemente si crede che i loro ruoli siano rispettivamente quello di accusa, arbitro e difesa; in realtà, la situazione è più complessa. I primi due servono infatti un unico interesse, la verità giudiziaria, lungo due diverse direttive: il PM si occupa delle indagini, il giudice di determinare la loro validità e attinenza ed esprimere quindi un giudizio finale. Ciò significa che il PM non deve sempre accusare; questi deve piuttosto valutare alla luce delle indagini se sia necessario chiedere una condanna o un’assoluzione. L’avvocato, d’altro canto, è portatore di un interesse particolare di rilevanza pubblica: egli deve cioè garantire che siano rispettate le misure a difesa dei diritti dell’imputato, assicurarsi che il processo sia svolto seguendo tutte le norme del caso e chiedere l’assoluzione o la pena più favorevole al suo assistito al momento del giudizio finale.

Chiariti i ruoli di ciascuno, si possono comprendere le varie posizioni sul tema. I sostenitori della separazione delle carriere ritengono che l’attuale sistema non garantisca la terzietà del giudice, come provato da alcune sfortunate vicende dove le funzioni giudicante e requirente si sono sovrapposte nella medesima figura (seppur in diversi momenti del processo). La separazione delle carriere, seguita da una proposta di legge che separi anche i relativi CSM, risolverebbe questo problema, mantenendo intatti però gli interessi e i fini delle parti in causa. I suoi oppositori, al contrario, credono che la biforcazione della magistratura risulterebbe in una biforcazione della formazione, della cultura di giurisdizione e quindi infine degli interessi di PM e giudici, con il rischio che il PM da magistrato si trasformi in "super poliziotto" al servizio dell’esecutivo di turno. Si consideri pure non sussistente questo rischio: loro argomentano che la possibilità per i magistrati di assumere le due diverse funzioni e le loro relative prospettive migliori il servizio che rendono alla comunità e solidifichi il comune interesse per la verità giudiziaria.

La vittoria del Sì in questa occasione, per quanto incontestabile, si è rivelata di Pirro, rimanendo ad anni luce di distanza dal quorum richiesto per il referendum. Le ragioni di ciò saranno trattate più avanti nell’articolo.


Il quarto quesito voleva invece permettere ai membri laici dei consigli giudiziari di intervenire e votare la valutazione della professionalità del magistrato. Ciò è oggi consentito per i membri non togati del CSM, che danno però un giudizio definitivo che spesso rimarca il parere offerto dai consigli giudiziari, più vicini al magistrato in esame. La riforma Cartabia consentirebbe agli avvocati (ma non ai professori universitari) di esprimere un voto unitario sui magistrati. I promotori del referendum credono però che questa misura sia comunque insufficiente.

Essi infatti accusano l’attuale sistema di essere autoreferenziale, dato il 99,2% di pareri positivi espressi dai consigli giudiziari. I fautori del No, d’altro canto, credono che quanto propone il referendum introdurrebbe un pericoloso fattore di condizionamento dell’operato del magistrato: sapendo infatti di trovarsi di fronte a chi potrebbe rivelarsi decisivo per la sua futura carriera, questi prenderà decisioni che lo favoriranno.

Similmente al terzo e al quinto quesito, il Sì ha qui ottenuto una vittoria numericamente significativa ma politicamente insignificante, portando a casa più del 70% dei voti a fronte però di un’affluenza di poco superiore al 20%.


Il quinto quesito chiedeva infine di rimuovere la necessità di raccogliere 25 firme per candidarsi al CSM. È giusto notare che il numero di voti effettivamente necessario a farsi eleggere è molto più alto; infatti, a essere criticato non è il numero di firme, quanto il peso specifico delle stesse.

Secondo i sostenitori del Sì, le 25 firme sono diventate un mezzo con cui segnalare il supporto di una corrente dell’ANM alla propria candidatura: l’abrogazione di questo criterio vuole quindi essere una spallata al fenomeno correntizio, che da anni è una dolorosa piaga per la magistratura. Trattandosi di un segnale, i promotori del referendum chiedono anche un intervento legislativo più ampio per arginare il ruolo delle correnti all’interno del CSM. I fautori del No, in accordo su quest’ultimo punto, credono però che il successo del quesito possa rivelarsi un pericoloso specchietto per le allodole, in grado di intaccare il momento di una riforma significativa della magistratura. Se infatti non saranno le penne a esprimere il sostegno a un candidato, le voci delle varie correnti non staranno certo in silenzio.

Anche in quest’ultimo caso il Sì ha ottenuto una vittoria di Pirro, poco significativa a livello politico.


Di fronte a così tanti risultati sostanzialmente ininfluenti, è naturale porsi la domanda: cosa è andato storto? Accantonando le teorie di un complotto della Corte Costituzionale per disincentivare il voto al referendum, le principali ragioni paiono essere due: il meccanismo di presentazione dei quesiti e la natura degli stessi. Infatti, pur avendo affermato pubblicamente di aver raggiunto le 500 mila firme necessarie a presentare la richiesta, i promotori del referendum decisero a suo tempo di ricorrere al sostegno di nove Consigli regionali, privandosi così di 2,5 milioni di euro in rimborso spese e limitando ai soli delegati regionali la possibilità di finanziare spot televisivi e ricevere sussidi. I quesiti stessi sono però con ogni probabilità i principali responsabili della debacle del referendum. Tutti i quesiti posti al giudizio degli elettori il 12 giugno sono infatti estremamente settoriali e difficilmente comprensibili se non alla luce di una solida formazione precedente e una certa esperienza con le dinamiche dei processi e della magistratura. Le implicazioni della separazione delle carriere, come anche dell’abrogazione del decreto Severino e della limitazioni alle misure cautelari, non sono affatto chiare in prima analisi e richiedono l’assistenza di un esperto anche solo per iniziare a comprenderle. Inoltre, gli ultimi due quesiti peccavano di poca consequenzialità: la loro implementazione difficilmente sarebbe risultata decisiva nel risolvere i problemi della magistratura. A questi difetti si è poi aggiunta una condotta criticabile dei media italiani, che solo negli ultimi giorni prima del voto hanno lasciato il dovuto spazio ai quesiti referendari, rendendo più complicato il già difficile compito di informare il cittadino medio. Cercando di aumentare i propri ascolti, essi hanno deciso di non limitare la copertura della guerra in Ucraina e della crisi economica, non adempiendo quindi a pieno al loro dovere di informare i cittadini prima del voto.


A uscire indeboliti dai risultati del 12 giugno non sono però solo i telegiornali, ma anche lo strumento del referendum. Di fronte a una debacle di tali proporzioni la sua credibilità e importanza agli occhi degli italiani è stata compromessa, se non irreparabilmente, in modo significativo. È quindi necessario porre la fatidica domanda: di chi è la responsabilità di questa sconfitta? Dei mezzi di informazione negligenti? Di una classe politica inadeguata? O forse è dei cittadini?


Mathias Caccia



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