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Uiguri, storia di un genocidio

Tra le storie più interessanti in materia di indipendentismo rientra senza dubbio quella degli Uiguri e del loro instancabile tentativo di ribellione a soprusi e ingiustizie.

Per capire le motivazioni che fanno da sfondo alle vicende che seguono, è necessario in primo luogo delineare un quadro geo-storico che vede questa popolazione vittima di una serie di violenze perpetrate negli anni.

 


Chi sono gli Uiguri?

Sono un’etnia turcofona, per lo più di fede musulmana, presente già dal II secolo a.C. nello Xinjiang, la regione più occidentale della Cina. Diversamente dal territorio più orientale, abitato in gran parte dal popolo cinese di etnia Han, lo Xinjiang ospita varie minoranze (Mongoli, Tagiki, Uzbeki e, soprattutto, 11 milioni di Uiguri).

 


Quali sono i retroscena delle spinte indipendentiste?

Nel 1760, la dinastia Qing annesse quest’area all’impero con l’obiettivo di imporvi un controllo centralizzato, ignorando del tutto le volontà del popolo autoctono.


Con la disgregazione dell’Urss negli anni Novanta, l’affermazione di nuove repubbliche musulmane confinanti con lo Xinjiang (Pakistan e Afghanistan) favorì la presa di coscienza degli autoctoni della regione di un’identità culturale e religiosa da preservare, dando così avvio a una serie di lotte e forme di opposizione alla colonizzazione Han.


La prima insurrezione si ebbe il 5 aprile 1990, a Baren, una cittadina nel sud – est dello Xinjiang, quando 200 militanti uiguri attaccarono le forze dell’ordine cinesi chiedendo lo stop all’immigrazione Han. Fu un evento talmente violento che il governo cinese inviò l’esercito a sedare l’insurrezione.


Il secondo periodo di scontri, registratosi tra il 1992 e il 1993, colpì in modo più evidente le città del nord, come Urumqi dove, il 5 febbraio 1992, un attacco dinamitardo provocò numerose vittime.


Le operazioni di guerriglia vennero portate avanti fino ai giorni più recenti: il 23 ottobre 2013 un attentato suicida colpì Piazza Tienanmen, un’auto immatricolata nello Xinjiang si gettò sulla folla uccidendo 2 persone e ferendone 40 prima di esplodere. L’anno successivo, il primo di marzo, la stazione di Kunming nello Yunnan venne attaccata da sei donne e due uomini, individuati dai media come terroristi uiguri.


A questo punto il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi-Jinping, rispose, dichiarando guerra a quelle che definì le tre piaghe della Cina: separatismo, estremismo e terrorismo. Cominciò quindi un’immensa campagna di repressione degli Uiguri, a partire dall’aspro incoraggiamento alle truppe cinesi a colpire duramente i nemici del regime.

Tuttavia, nessuno seppe per molto tempo cosa stesse davvero succedendo, dal momento che il regime comunista impose il segreto assoluto delle sue azioni sugli Uiguri.



La crisi umanitaria

Con la diaspora uigura, specialmente in USA, iniziarono però a emergere tratti più definiti della vicenda.

Le ricerche effettuate e le immagini che sfuggirono alla censura mostrarono la costruzione di numerosi campi di concentramento nelle aree rurali dello Xinjiang. Moltissimi Uiguri, arrestati, si trovarono reclusi e obbligati a seguire un regime ferreo, privati di sostentamento e di qualsiasi forma di assistenza, vivendo sotto la costante minaccia delle punizioni corporali. Nel 2022, l’ufficio OHCHR delle Nazioni Unite ha pubblicato un report in cui vengono citate, sulla scorta di interviste ad ex-prigionieri, situazioni di tortura e di trattamenti disumani nei campi tra il 2017 e il 2019. Tutto ciò con l’obiettivo di eliminare e sostituire l’identità uigura.



Le implicazioni politiche e strategiche

Il trattamento della popolazione uigura è tutt’altro che casuale, e le sue motivazioni non si limitano a un tentativo di omogeneizzazione culturale dell’intera Cina. Quest’ultima, infatti, non è che un mezzo che Pechino intende utilizzare per assicurarsi la stabilità e l’integrità territoriale all’interno del paese, specialmente dall’inizio della crisi economica e immobiliare che rischia di compromettere la legittimità del Partito Comunista Cinese agli occhi dell’opinione pubblica domestica e dei paesi alleati.


Xi Jinping intende “cinesizzare” lo Xinjiang presumibilmente per almeno tre ragioni. In primo luogo, agire con il pugno duro nella regione serve a contenere la minaccia del separatismo uiguro, che se si dovesse realizzare priverebbe la Cina di parte dello Xinjiang. Questo non solo costituisce una porzione enorme del territorio cinese, ma è soprattutto relativamente ricco di materie prime (come minerali, petrolio e gas naturale), per cui la Cina non è disposta a rinunciarvi facilmente.


In secondo luogo, lo Xinjiang è cruciale per la sicurezza domestica della Cina. Il Partito Comunista Cinese vede negli uiguri che popolano la regione un possibile tramite per i terroristi provenienti dai paesi a maggioranza islamica alle porte occidentali della Cina; per questo motivo, specialmente in seguito all’11 settembre e all’inizio della guerra globale al terrorismo, il governo cinese ha avuto l’interesse (e il pretesto per farlo) ad opprimere ancor più duramente la popolazione uigura, sottoponendola ad un rigido sistema di sorveglianza.


Infine, la questione uigura ha ripercussioni anche sugli interessi cinesi al di fuori dei propri confini, a tal punto da mettere potenzialmente a repentaglio i piani per la Nuova Via della Seta (o Belt and Road Initiative). Il progetto, infatti, prevede la costruzione di un’enorme rete di infrastrutture che passa anche per quei paesi a maggioranza islamica a cui sta particolarmente a cuore la causa uigura e che non vedono di buon occhio la Cina. Il rischio è che gruppi vicini all’indipendentismo uiguro respingano i tentativi di espansione commerciale cinese nei loro paesi, sabotando e danneggiando infrastrutture cruciali o impedendone la costruzione tramite la violenza. Xi Jinping, ben consapevole di questo pericolo, ha comunque scelto di puntare sulla costruzione di infrastrutture in paesi fortemente islamici come il Pakistan; alle spalle di questa decisione non c’è solamente la necessità strategica di diversificare le sue rotte commerciali verso Ovest, ma anche la speranza di migliorare l’immagine della Cina in paesi in cui questa non è ben vista: nelle ambizioni cinesi, i paesi a maggioranza islamica toglierebbero il proprio supporto alla causa uigura una volta conosciuti i vantaggi economici portati dalle infrastrutture e degli investimenti della Nuova Via della Seta.  In effetti, governi come quello pakistano, interessati ai benefici della Belt and Road Initiative, sembrano voler mantenere i legami con la Cina a prescindere dalla questione uigura. Nonostante il consenso estero istituzionale, tuttavia, è il supporto popolare per questi legami che potrebbe crollare da un momento all’altro, data la vicinanza della popolazione musulmana agli uiguri: in paesi come Pakistan e Turchia sono state molte le proteste popolari e i tentativi di boicottaggio di prodotti, infrastrutture e aziende cinesi, e non è da escludere che in futuro  saranno gruppi armati islamisti a farlo in modo più violento, rivendicando il diritto del popolo uiguro ad esistere. Queste forze centrifughe nei paesi a maggioranza musulmana potrebbero portare i singoli governi a fare un passo indietro sui propri legami con la Cina, che ne risentirebbe in termini economici e strategici.


In conclusione, come abbiamo cercato di spiegare, la questione uigura è molto complessa e merita attenzione, sia per il suo carattere umanitario e sia per le sue implicazioni geopolitiche, che potrebbero mandare in fumo i piani cinesi sia dal punto di vista domestico che in termini di relazioni con altre potenze strategiche della regione.


Marco Centomo, Siria Santangelo


Fonti

 


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