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Texas: il lontano miraggio di una guerra civile

Il lascito di Capitol Hill

Sono passati più di tre anni dal sei gennaio 2021, quando centinaia di manifestanti del movimento MAGA invasero i corridoi e le aule del Campidoglio in un passionale e spropositato tentativo di ribaltare il risultato delle ultime elezioni americane. Fu la prima volta dal 1814, quando i soldati inglesi presero il controllo dell’edificio e lo diedero alle fiamme, che la sede del parlamento federale venne violata, in un atto di irrazionalità collettiva che portò alla morte di cinque persone e al grave ferimento di altre tredici. Ci siamo abituati a dare per scontato che la poltrona dello Studio Ovale sia legittimamente nelle mani di Joe Biden, ma ancora oggi  secondo gli ultimi sondaggi della Monmouth University almeno un americano su tre crede che le elezioni 2020 siano state fraudolente, frazione che si ripartisce in un terzo degli elettori indipendenti e più di  due terzi dei repubblicani.


Questi dati sorprendenti non sono la conseguenza di evidenze di una frode elettorale, mai provata e sempre rimasta una mera costruzione mediatica repubblicana, ma possono essere interpretati come il sintomo di una grave e profonda lacerazione nel tessuto politico e sociale americano. Proprio in merito agli avvenimenti del sei gennaio, il tre marzo la Corte Suprema statale ha dichiarato illegittima la sentenza dello della Corte Suprema del Colorado, che lo scorso dicembre aveva classificato Donald Trump “incandidabile” appellandosi al quattordicesimo emendamento della Costituzione americana. La Terza Sezione di questo emendamento era stata aggiunta dopo la Guerra di Secessione per impedire agli ex-confederati di ottenere incarichi pubblici, essa recita: «Nessuno potrà essere senatore o rappresentante nel Congresso, o elettore per il presidente e il vicepresidente o potrà ricoprire una qualsiasi carica, civile o militare se, avendo prestato giuramento di difendere la costituzione degli Stati Uniti, abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione».


La decisione della Corte Suprema però non fa cenni alle azioni del tycoon a Capitol Hill, ossia non definisce quella di Trump una «insurrezione» o meno, ma fa esclusivo riferimento alla illegittimità di una corte statale di interferire, mettendo in atto la Terza Sezione della Costituzione, sugli uffici federali nell’ambito della corsa presidenziale. Nonostante questo, la sentenza della Corte è indubbiamente una grande vittoria politica per Trump, ma i suoi fardelli legali non si limitano affatto alla sola candidabilità: il leader repubblicano deve affrontare ben novantuno capi di accusa, e risulta incriminato in quattro distinti procedimenti.


Se dal lato democratico Trump viene considerato un attore politico totalmente delegittimato, irresponsabile e impresentabile nell’arena istituzionale, lo stesso vale per la maggior parte dei repubblicani nei confronti dei Joe Biden.  Il presidente democratico è stato oggetto di ripetute accuse dagli esponenti del MAGA: escludendo le più creative, il leitmotiv querelante repubblicano lo dichiara complice dei crimini finanziari e fiscali del figlio Hunter, al momento imputato in nove procedimenti penali, ma finora non è mai stato prodotto alcun legame con gli illeciti del figlio. Senza il bisogno di entrare nei dettagli legali dei due candidati, si palesa il rapporto di rovente bi-polarizzazione che distanzia pericolosamente il presidente blu e l’ex-presidente rosso; una ferita aperta dalle scorse elezioni, che invece di rimarginarsi si è espansa sempre più, esponendo quella che potrebbe diventare un’ampia cicatrice a lungo termine nella società statunitense.



Texan standoff

L’odierna spaccatura bipolare è ben rappresentata nello specifico contesto della politica migratoria del Texas, dove negli ultimi mesi si è aperta una delle peggiori crisi istituzionali tra il governo federale e quello di uno stato membro. Dalla fine della pandemia di Covid-19 gli accessi di immigrati irregolari attraverso il confine meridionale del Texas hanno visto un incremento esponenziale; negli ultimi due anni la Border Patrol, l’organo federale per la sicurezza degli affari migratori ha registrato almeno due milioni di fermi di migranti illegali, i dati più elevati nella storia della agenzia. In risposta a questo fenomeno il governatore repubblicano Abbott, grande sostenitore della narrativa trumpiana sulla questione migratoria, avviò nel marzo 2021 la cosiddetta Operation Lone Star, il cui titolo già ritrae con chiarezza un diffuso senso di abbandono e biasimo verso il governo federale. Questa operazione ha mobilitato almeno diecimila soldati della Guardia Nazionale del Texas, e più di mille poliziotti di stato per fermare, arrestare e processare rapidamente gli irregolari e chiunque avesse aiutato un migrante a varcare il confine; è venuta a costare finora circa dieci miliardi di dollari.


Human Right Watch ha seguito da vicino l’operato delle forze di sicurezza, denunciando gravi violazioni della polizia e dei soldati texani nei confronti dei migranti, nonché il frequente ricorso di inseguimenti ad alta velocità per intercettare veicoli sospetti di trasportare irregolari, pratica che dall’inizio di Lone Star è costata la vita a settantaquattro civili e dieci poliziotti in incidenti stradali.

Ma Lone Star non è solo una operazione di polizia, è una campagna dalla grande potenza mediatica e politica, infatti sono stati in centinaia i riservisti militari che hanno risposto all’appello di Abbott e si sono offerti volontari di partecipare nella militarizzazione del confine, assemblando reticolati di filo spinato, fortificazioni improvvisate, operando i veicoli di trasporto militare M113 e creando un perimetro di sicurezza attorno ad Eagle Pass, per fermare i migranti verso il Messico e chiudere l’accesso alle agenzie federali dalla parte opposta.


Eagle Pass è un comune di frontiera dove vi è uno dei guadi del Rio Grande più affollati di tutto il confine meridionale degli USA. È qui che la crisi umanitaria si è rivelata anche nella sua natura istituzionale, infatti lo scorso dieci gennaio le autorità federali della Border Patrol hanno tentato di accedere all’area boschiva dello Shelby Park, per rispondere ad un appello delle autorità messicane che avevano avvertito di possibili migranti in pericolo di vita nel fiume. I militari della Guardia Nazionale del Texas hanno però negato l’accesso ai federali, affermando di avere ordini diretti dal governatore di non permettere a nessuno, nemmeno alla Border Patrol, di entrare nella zona militarizzata.


Il dodici gennaio tre migranti, una madre e due bambini, sono annegati nel Rio Grande vicino allo Shelby Park, e le tensioni fra il governo texano e quello federale sono esacerbate, con accuse reciproche dalle due parti di aver contribuito alla tragedia. Il Dipartimento della Homeland Security ha fissato così al diciassette gennaio l’ultimatum per sgomberare l’accesso all’Eagle Pass, ma il Procuratore Generale nazionale rispose che il Texas non si sarebbe arreso e non avrebbe ceduto alle intimazioni dei federali. In risposta alle aspre critiche degli stati democratici e dell’Amministrazione Biden, venticinque governatori repubblicani, i rappresentanti di tutti gli stati rossi eccetto il Wyoming, hanno firmato una lettera di solidarietà con Abbott, sostenendo il suo operato e accusando Biden di non rispettare il dovere costituzionale di difendere gli stati membri, ed elogiando l’utilizzo di «qualunque mezzo necessario, incluso il filo spinato, per mettere in sicurezza il confine»


Il ventidue gennaio la Corte Suprema federale ha emesso una sentenza, dichiarando legitimma la rimozione, da parte della Border Patrol, del filo spinato e degli altri ostacoli che non le permettessero l’accesso al confine, siccome la sicurezza di frontiera è una competenza in primo luogo federale. Nonostante la dichiarazione della Corte a maggioranza repubblicana (che non dichiara illegali le azioni delle autorità texane, ma autorizza i federali a rimuoverne gli ostacoli) la Guardia Nazionale ha continuato ad erigere barriere materiali sul confine, dove il ventinove febbraio hanno accolto in visita l’ex presidente Trump, accompagnato dal governatore Abbott tra i reticolati di Eagle Pass. Qui il tycoon ha ancora una volta accusato Biden di commettere crimini contro gli Stati Uniti e ha promesso di iniziare deportazioni di massa dopo una possibile vittoria a novembre. Lo stesso giorno, a trecento miglia di distanza nella città di frontiera di Brownsville, il presidente Biden ha mandato un messaggio, al cospetto della Border Patrol federale, chiedendo a Trump di sbloccare il disegno di legge bipartisan per intervenire sulla crisi migratoria. Su quel progetto democratici e repubblicani si erano accordati, ma il tycoon diede l’ordine di bloccarlo al Congresso dichiarandolo eccessivamente blando.



Da competizione a conflitto

Il dualismo stridente sul confine texano si è riconfermato martedì nel cosiddetto Super Tuesday, in cui tradizionalmente si vota per le primarie nel maggior numero di stati. Non a caso Biden e Trump hanno stravinto ovunque, portando al ritiro dell’ultima alternativa repubblicana moderata Nikki Haley, che ha sospeso la sua campagna elettorale senza però fare un endorsement al leader repubblicano.

Numerosi think-tank negli ultimi otto anni hanno discusso della crescente polarizzazione nella società americana; Politico prevede che una seconda vittoria di Joe Biden potrebbe scatenare violenze e tumulti anche peggiori del gennaio 2021, perché nonostante la distanza temporale non si è verificata nessuna effettiva de-polarizzazione; rispetto a giugno 2021 quando il 33% dei repubblicani avrebbe definito l’assalto a Capitol Hill una «insurrezione», oggi solo il 15% la definirebbe tale, con la rimanente porzione solida sul termine «protesta legittima».


Dai primi confronti fra federali e autorità texane, il dibattito pubblico americano ha accolto numerose allusioni, prevalentemente di origine repubblicana, al timore di possibili scontri diretti fra le autorità, a violenze scatenate da reciproche ingerenze se non addirittura di una nuova guerra civile. Per quanto queste affermazioni possano essere sensazionalistiche e sproporzionate, esse riflettono quell’umore tetro e violento che è ormai abituale nella comunicazione intra-partitica americana; alle due feste per i risultati del Super Tuesday Trump e Biden si sono reciprocamente definiti «il peggior presidente della storia americana» e «un individuo animato da vendetta che vuole distruggere la democrazia americana».

Sono solo un lontano ricordo i tempi di McCain e Barack Obama, quando durante un convegno a poche settimane dal voto per le presidenziali 2008 il candidato repubblicano difese il suo avversario dalle ingiurie di alcuni suoi sostenitori, che lo avevano definito «terrorista» e «un arabo». A queste goffe accuse McCain rispose: «I had to tell you, he’s a decent person, and a person of whom you do not have to be scared as president of the United States […] no ma’m, he’s a decent family man, a citizen that I just happen to have disagreements with on fundamental issues, and that’s what this campaign is about, thank you».


Sul confine texano si sono palesati tutti i sintomi di un livore politico strutturale che non sembra destinato a placarsi, quanto ad inasprirsi tanto più le elezioni si avvicinano. Secondo un sondaggio fatto dal Guardian nel 2022, più del 40% degli americani crede che una guerra civile sia almeno in parte probabile nei prossimi dieci anni; certo non possiamo illuderci che le opinioni aggregate determinino la storia, ma possono darci un assaggio dell’aria avvelenata che si respira negli USA.

Il prossimo dodici aprile la rinomata casa cinematografica A24 manderà in tutte le sale «Civil War», il quadretto adrenalinico di una Guerra di Secessione contemporanea. Consiglio a tutti di gustarvi il trailer, buona visione.


Paolo Zurlo


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