Come fare la spesa in modo intrigante? Nessuna di voi, probabilmente, si sarà mai posta questa domanda, ma a chiunque faccia un minimo uso dei social, maschi e femmine senza distinzione, sarà capitato nei giorni scorsi di incappare nello spiacevole video trasmesso su Rai2 da Detto fatto. Proprio alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in una puntata incentrata sull’uso dei tacchi, esaltati come strumento di “grande slancio all’autostima e alla personalità”, un’insegnante di pole dance mostra alle telespettatrici come trasformare le corsie di un supermercato in un palcoscenico per sedurre gli uomini, spiegando come ogni azione, dallo spingere il carrello al cogliere un prodotto caduto a terra, possa diventare occasione di movimenti sensuali e provocanti.
Immediata e netta la valanga di reazioni scatenatesi sui social, e forte anche la condanna da parte di vari rappresentanti politici e istituzionali: un video sessista, stereotipizzante, anacronistico, in cui per l’ennesima volta il corpo femminile è strumentalizzato a mero mezzo di appagamento maschile. Dopo le scuse della conduttrice e di vari esponenti della Rai il programma è stato sospeso, “in attesa di studiare una programmazione che rispecchi una linea editoriale adeguata al messaggio del servizio pubblico”, ha affermato Salini, amministratore delegato della Rai.
Ciò che non può essere sospeso è una riflessione più profonda a partire da questo episodio.
C’è da chiedersi, innanzitutto, quale fosse l’intento nella produzione del video. A detta della conduttrice, il tutorial voleva solo aderire a toni comici e surreali. Ma qual è il confine tra ironia e offesa, tra la difesa della libertà editoriale e il rischio di trasmettere messaggi diseducativi e impertinenti? E perchè per intrattenere il pubblico abbiamo bisogno di scadere perennemente in richiami sessuali, volgari, superficiali? Davvero non sappiamo proporre nient’altro?
Da un lato il rischio è che sotto la dittatura imperante del politically correct non sia più lecito scherzare su niente. Dall’altro, però, basta dare uno sguardo ai dati pubblicati dall’Istat il 25 novembre per renderci conto di quanto ancora siamo lontani dalla condivisione di una consapevolezza e sensibilità sufficienti, su quella che è a tutti gli effetti una tra maggiori piaghe sociali, per permetterci il lusso di ironizzare sul tema.
Se ancora oggi una donna su tre è vittima di violenza fisica o sessuale, senza poi contare quella di tipo verbale, psicologica, economica, è perchè, nonostante gli sforzi che si stanno facendo su più livelli, sono ancora profondamente radicati, negli abissi della nostra interiorità, quegli stereotipi millenari alla base di una mentalità retrograda e dannosa. Stereotipi impliciti e automatici, acquisiti e consolidati non solo da millenni di storia in cui il ruolo della donna è stato relegato a precise funzioni sociali, ma anche da decenni di mercificazione del corpo femminile nella tv e nei media in generale: donne sempre belle, giovani, snelle, corpi ripresi appositamente nelle loro parti più intime ed erotiche, body shaming nei confronti di chi in questi canoni non rientra (pensate al caso della giornalista Botteri di maggio scorso). Rappresentazioni di questo tipo nei primi anni ’80, quando si erano da poco spente le manifestazioni femministe, sono state fatte passare per progressiste, esemplari di emancipazione e libertà di espressione, per poi essere accettate come prassi comune, sfociando di fatto in un immaginario soffocante e ormai insopportabile, che poco respiro lascia all’autenticità e alla pluralità dell’esperienza femminile.
Ma che ricadute possono avere rappresentazioni simili nella concezione dell’amore, della sessualità, del rapporto di coppia, della famiglia, in spettatrici e spettatori spesso privi dei mezzi per guardare criticamente queste immagini? Quanto queste stereotipizzazioni, in modo più o meno consapevole, incidono non soltanto sull’oggettivizzazione della donna da parte di un uomo, ma anche sul modo delle donne di guardare se stesse?
In un momento storico come questo, in cui la tv è uno dei pochi strumenti attraverso cui il mondo può penetrare oltre le soglie delle nostre case, tra quelle mura che proprio in quest’ultimo periodo, anche per le limitazioni imposte dalla pandemia, hanno assistito sempre più numerose a episodi di violenza, i produttori televisivi dovrebbero sentirsi più che mai investiti da una forte responsabilità in questa battaglia culturale. “I media agiscono come un quarto potere, hanno la capacità di influenzare e in definitiva plasmare l’opinione pubblica”, recita la risoluzione sulla parità del genere nel settore dei media approvata dal Parlamento Europeo nel 2018, sottolineando il ruolo dei media come potente strumento per sradicare gli stereotipi e promuovere una rappresentazione equilibrata e non degradante delle donne.
Se vogliamo evitare che le donne stesse usino il proprio corpo in funzione dell’uomo, è importante che sviluppino in primo luogo una coscienza forte di se stesse, del proprio valore e volere. Se vogliamo persone capaci di amore e rispetto reciproco, è necessaria un’educazione trasversale a un’affettività sana, che miri alla piena affermazione dell’altro, non all’oggettivizzazione che sfocia poi in prevaricazione.
Una rivisitazione totale dei servizi offerti in tv in questo senso sarebbe doverosa. Poi a noi la scelta: se lasciarci conquistare dai modelli seducenti proposti, o se farci ispirare/ ricercare le storie, magari meno appariscenti, di donne autentiche, realizzate, che sprigionino davvero una libertà di espressione profonda e consapevole, e perché no, che vadano al supermercato coi tacchi e indossino vestiti sexy.
Noemi Felisi
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