Quella del Congo è la storia di uno stato in cui la presenza di materie prime rare si è rivelata una maledizione che si è intrecciata a conflitti e sfruttamento. Questo circolo di morte ha vita propria e sembra inarrestabile: divora e corrompe chiunque lo voglia controllare.
La Repubblica democratica del Congo (RDC) nel 1960, anno in cui conquistò la propria indipendenza, era il secondo stato più industrializzato dell’Africa ed aveva un territorio ricco di materie prime preziose come oro, rame e diamanti. A distanza di 60 anni il Congo ha un PIL pro capite stimato di 457$, tra i più bassi al mondo, ed il 70% dei cittadini vive con meno di un dollaro al giorno.
Cos’è successo in questo arco di tempo? Facciamo un salto in Occidente negli anni 2000, quando la tecnologia entra nell’immaginario collettivo: telefono, videocamera, macchina fotografica, computer. Per il funzionamento di questi dispositivi elettronici serve il tantalio, ricavato da un minerale raro: la columbite-tantalite, comunemente conosciuto come coltan. Con il boom tecnologico, la domanda di questo minerale cresce esponenzialmente, il prezzo del coltan sestuplica e questo causa una corsa mondiale alle miniere.
La corsa ha come obiettivo la RDC, da cui si estrae ben l’80% di coltan. Anche in Cina ed Australia si trovano zone ricche del minerale, ma il coltan congolese viene preferito poiché il costo della manodopera è molto più basso. Estrarre questo minerale non è semplice, ma coloro che se ne occupano sono soprattutto minori, il 56% degli 85 milioni di abitanti. Grazie alla loro statura riescono a farsi strada, a mani nude e senza alcun equipaggiamento protettivo, nei tunnel stretti delle miniere, favorendo l'efficienza dell'estrazione per solo pochi dollari.
Un’altra ragione per preferire l’estrazione del coltan dalle miniere congolesi è la guerra. L’illegalità del controllo delle miniere, l’economia liberale e lo sfruttamento è un grande traffico da cui si trae un grande profitto, e gli artefici sono proprio i congolesi.
Con “congolesi” si fa riferimento ad uno categoria di individui che per secoli, in balia delle divisioni etniche, degli sconvolgimenti statali, delle trasformazioni socio-culturali decidono di diventare attori attivi. Le alternative non sono molte: la milizia è il luogo più conveniente in cui si è protetti, si esperisce la dimensione dell'appartenenza, ci si sente potenti e con la quale si può ambire alle “vetrine occidentali” attraverso il saccheggio e le capacità militari.
Non importa quale si sceglie, l’importante è sceglierne una in quanto essa è la chiave per diventare qualcuno. Come? Nelle regioni del Nord Kivu e del Sud Kivu le milizie presenti sono ben 21 (per esempio Mayi-Mayi) e principalmente entrano regolarmente in conflitto tra di loro per il controllo dei territori (citando alcuni gruppi Hutu - Tutsi - Banyamulenge - Banyarwanda - Hema - Ituri).
La loro prima fonte di guadagno è il “pillage” cioè il saccheggio; la seconda è il finanziamento da altri stati africani come Rwanda, Uganda e Burundi che ancora cercano di esercitare la propria influenza. Infine, i gruppi armati hanno un’ulteriore fonte di finanziamento: tassano tutti gli spostamenti del minerale in entrata ed in uscita dal proprio territorio di competenza. Secondo un rapporto di Enough Project, ogni giorno viene esportato l’equivalente di un milione di dollari di coltan, e di questa enorme cifra solo una piccolissima parte raggiunge le tasche dei civili congolesi.
Anche le multinazionali del hi-tech hanno avuto e continuano ad avere delle responsabilità importanti in questo sistema. Le aziende acquistano il coltan da rivenditori direttamente legati alle milizie, finanziandole e finanziando il sistema di violenza e sfruttamento su cui si reggono. Negli ultimi anni sono stati fatti dei passi avanti in Europa e Stati Uniti per garantire la tracciabilità delle materie prime, ma non basta. Ancora oggi una miniera su due è sotto il controllo delle milizie.
Con il trionfo dell’ideologia neo-liberale, che ha eroso il potere degli stati, e della globalizzazione, che ha facilitato la creazioni di reti nazionali ed internazionali, nella RDC si è venuta a creare un'opportunità per le milizie che controllano il monopolio della violenza e quindi del mercato.
Sono trascorsi 22 anni dalla firma dell’accordo di cessate il fuoco di Sun City, che avrebbe dovuto porre fine al conflitto nella RDC. Secondo l’analisi del Pole Institute l’equazione estrazione mineraria = conflitti nella RDC orientale non può reggere: il tentativo fatto nel 2010 dal Presidente Joseph Kabila di chiudere le attività minerarie per fermare il conflitto non ha che trascinato ulteriormente al collasso molti altri settori della vita economica.
Oggi si cerca di “normalizzare” l’attività mineraria ripulendo la catena dal pozzo all’impianto di lavorazione finale, ma come è solito accadere nella storia della RDC non è così facile distinguere i buoni dai cattivi.
Davide Melchionda e Viola Ciovati
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