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La penna del guerrillero

Aggiornamento: 27 apr 2023

Ricordando Rodolfo Walsh.


Sceso dal treno, Rodolfo aveva salutato la moglie e si era diretto alla più vicina cassetta delle lettere in Plaza de la Constitución. Depositata la sua lettera, era salito di buon umore su un autobus per dirigersi all’incrocio tra Avenida San Juan ed Entreríos. Come suo solito, si era fermato una stazione più in là del necessario, una piccola misura di sicurezza, per non dare indizi a chi lo stesse seguendo. Stava per incontrare uno dei suoi sottoposti, Pepe Salgado, per camminare con lui qualche centinaio di metri e discutere sul da farsi. Per quanto guardingo, il suo sguardo era concentrato sull’incrocio, da dove Pepe sarebbe dovuto sbucare da un momento all’altro. D’altronde, spesso e volentieri una folla non indifferente animava quell’angolo di Buenos Aires, ed era facile perdersi di vista. Non molto lontano, un giovane trafelato stava accelerando il passo. Rodolfo, pur sentendo i suoi passi, non lo vide arrivare. Tutto d’un tratto sentì le mani dell’altro stringerlo, stritolarlo, immobilizzarlo. Si dimenò, con forza, e riuscì a liberarsi. Corse, tirando fuori la sua calibro .22 Corto. All’incrocio una macchina inchiodò, si aprirono le portiere. Ormai aveva capito: era successo a Paco, era successo alla sua amata Vicki, luce dei suoi occhi, era successo probabilmente a Pepe. Ora era il suo turno. Nella testa un unico pensiero: non doveva uscirne vivo. Gli agenti di polizia, spianati i loro RAL, diedero il fatale ordine di arrendersi. Si nascose dietro un albero lungo la via. I fucili spararono a vuoto la prima volta, e Rodolfo potè colpire un agente: aveva firmato la tanto desiderata condanna a morte. La seconda volta non sbagliarono: preso il suo corpo e caricato sulla macchina, sparirono sotto la luce del sole di mezzogiorno. Qualcuno vide il suo corpo poco più tardi all’ESMA. In tasca, l’ultima prova di un destino da tempo segnato.

Questi gli ultimi momenti di Rodolfo Walsh, guerrillero, letterato e giornalista argentino.


A consacrare la sua carriera da reporter fu una partita di scacchi, uno tra i suoi hobby preferiti. Il silenzio sacrale dello sport ufficiale lasciava spazio al chiacchiericcio dei bar bonaerensi. Tante parole si sarebbero potute perdere in quel brusio, ma non queste: “Hay un fusilado que vive”, c’è un sopravvissuto alle sevizie del governo. Iniziò una ricerca ossessiva dei sopravvissuti: giustizia doveva essere fatta. Uno a uno, Walsh intervistò i sette superstiti delle fucilazioni di José León Suárez (una località del partido di San Martín). Operación Masacre fu il frutto di quei mesi di lavoro febbrile, e forse uno dei libri più influenti nella storia della letteratura latinoamericana e mondiale. In Argentina cambiò il nome di una rivoluzione, da Libertadora a Fusiladora. Nel mondo non ricevette l’attenzione che meritava, se non per le lodi di Gabriel García Márquez, che lo definì “un capolavoro del giornalismo universale”. Infatti, sebbene ignorato nella celeberrima antologia di Tom Wolfe, il libro fu il primo a rientrare a pieno titolo nel genere del New Journalism, e a farlo con pieno merito letterario. La penna di Walsh, allenatasi coi racconti polizieschi scritti all’ombra del gigante Borges, si affinò più che mai in questa occasione, regalando descrizioni magistrali, tanto vivide da far diventare il lettore stesso testimone delle atrocità. Il seguente esempio è una delle molte prove della sua abilità:


“I poliziotti li ordinano di fronte ai cassonetti come un gregge terrorizzato. Il furgoncino si ferma, illuminandoli coi fari. I prigionieri paiono galleggiare in un vivissimo lago di luce. Rodríguez Moreno scende, pistola in mano. Da questo istante la testimonianza si frammenta, esplode in dodici o tredici noduli di panico.”

Nonostante l’importanza storica di quest’opera, a rendere Walsh celebre in tutto il mondo fu la Lettera aperta di uno scrittore alla giunta militare. Scritta per il primo anniversario del golpe che diede avvio al Processo di Riorganizzazione Nazionale, con questa lettera Walsh uscì dalla clandestinità e firmò di proprio pugno l’attacco più duro mai portato alla junta di Jorge Rafael Videla. La lettera è una risposta al bilancio fatto dallo stesso generale sullo stato della Nazione dopo il primo anno di governo, dove, usando le parole dello stesso Walsh ,“quelli che chiamava successi erano errori, quelli che riconosceva come errori erano crimini e quello che ometteva erano calamità”. La politica economica, approvata dal Fondo Monetario Internazionale, elencata tra i “successi” del regime, aveva sortito tutt’altro effetto: il salario reale era crollato del 40%, i consumi erano calati enormemente, le ore di lavoro giornaliere di un operaio necessarie a mettere del cibo sul piatto erano triplicate, da 6 a 18.

I “successi” tanto decantati non erano certo della Nazione, ma della “vecchia oligarchia degli allevatori”, della “nuova oligarchia speculativa” e di “un gruppo selezionato di monopoli internazionali guidati dalla ITT, dalla Esso, dalle aziende automobilistiche, dalla U.S. Steel, dalla Siemens, a cui erano legati personalmente il ministro Martínez de Hoz e tutti i membri del suo gabinetto”. Ben più famosa è però la sezione che apre la lettera, dove Walsh racconta la repressione operata dalla junta nei confronti di chi si oppone, o anche solo sospettato di opporsi. Questi individui, sottratti ai loro affetti, venivano portati in “campi di concentramento dove non entra alcun giudice, avvocato, giornalista, osservatore internazionale”. Lì erano sottoposti a una “tortura assoluta, atemporale, metafisica nella misura in cui il fine originale di estrarre informazioni si smarrisce nelle menti squilibrate che la amministrano per cedere all’impulso di schiacciare la sostanza umana fino a romperla e farle perdere la dignità che il carnefice perse, che voi stessi avete perso.”


A una penna tanto affilata non poteva non abbinarsi una resistenza altrettanto coraggiosa e violenta, talvolta fin troppo, come nell’attentato alla mensa della Polizia Federale. E a una resistenza così violenta e coraggiosa non poteva non far seguito una caccia all’uomo spietata, senza esclusione di colpi. Il 25 marzo 1977 la caccia finì, la preda cadde. La stessa organizzazione che aveva sbagliato a pronunciare il nome di sua figlia Vicki mentre ne annunciava la morte aveva raggiunto anche Rodolfo. Anche lui si univa alla lista dei desaparecidos, dei cadaveri mai sepolti, mai restituiti all’affetto dei familiari. Anche il suo corpo era stato portato via in un’automobile, anche la sua resistenza era, o meglio pareva, finita. Pareva, perché nella sua tasca c’era la Lettera che avrebbe fatto il giro del mondo, la Lettera che avrebbe fatto sapere a tutti cosa veramente succedeva in Argentina. Nella tasca, insanguinata, c’era anche la ragione per cui lo sconfitto non avrebbe mai perso, per cui il male non avrebbe mai vinto: “Ancora chiederei ai signor Comandanti delle Tre Armate di meditare sull’abisso in cui conducono il Paese per l’illusione di vincere una guerra che, anche se uccidessero l’ultimo guerrillero, non farebbe altro che iniziare sotto nuove vesti, perché le cause che da più di vent’anni muovono la resistenza del popolo argentino non saranno desaparecidas, ma aggravate dal ricordo della strage causata e la rivelazione delle atrocità commesse”.

Così se ne andò Rodolfo Walsh, il guerrillero che vinse perdendo.


Mathias Caccia


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