Questo dodici agosto lo scrittore britannico Salman Rushdie è stato vittima di un tentato omicidio mentre teneva un convegno alla Chautauqua Institution, nello stato di New York.
Scrivere di questo attentato significa trattare di molte realtà: le diverse interpretazioni del Corano, i moventi politici e religiosi degli attentati jihadisti, il rapporto tra la libertà d’espressione ed i riferimenti ai testi ritenuti sacri, ma soprattutto la vita d’un libro e d’un uomo, perseguitato per trent’anni, e fino a qualche giorno fa in pericolo di vita.
Comprendere, o almeno tentare di approfondire l’attentato a Salman Rushdie, richiede a noi occidentali lo sforzo di tuffarci nel frammentato e a tratti labirintico mondo della religione islamica. Il primo passo è una grossolana ma essenziale suddivisione della fede coranica: Sciiti e Sunniti. Lo scisma ha origini antiche, ossia la disputa su chi fosse il legittimo successore del Profeta Maometto, morto nel 632, senza figli maschi né chiari eredi. I Sunniti sostenevano che il nuovo erede dovesse essere eletto con una decisione popolare da parte della comunità. Ad oggi, rappresentano circa l’80 % della popolazione islamica mondiale. I Sunniti popolano principalmente la Turchia, l’Arabia Saudita, le regioni dell’Africa settentrionale, la regione Indo-pacifica, l’Afghanistan, dal quale provengono i vari gruppi terroristici di Al-Qaeda e le milizie dei Mujahideen, la Siria, e l’Iraq occidentale, dove l’Isis, anch’essa di stampo sunnita, ha seminato il terrore durante la guerra civile. Caratteristica fondante del sunnismo è l’assenza di una autorità ecclesiastica centralizzante, il che implica un’estrema varietà d’interpretazioni, radicalizzazioni e spesso grottesche e violente deformazioni della dottrina coranica.
Lo sciismo è invece diffuso prevalentemente in Iran, dove è religione di Stato, in Libano, rappresentato dal partito radicale Hezbollah, nell’Iraq orientale e nella regione occidentale di confine tra Arabia Saudita e Yemen. Gli sciiti rispondono ai dettami dell’ayatollah Ali Khamenei, leader del clero sciita ed erede del rivoluzionario Khomeini, fondatore della teocrazia che governa l’Iran dal 1979. Gli sciiti originariamente sostennero che i veri eredi di Maometto fossero necessariamente i suoi familiari, affidandosi dunque alla guida del suo cugino e genero Ali ibn Abi Talib. La presenza di una autorità religiosa e al contempo politica nell’Iran contemporaneo fu determinante per le declinazioni internazionali del terrorismo sciita, protagonista di questa storia, profondamente diverso da quello sunnita, del quale i più terribilmente celebri esempi sono stati l’attacco alle Torri Gemelle ed il massacro alla sede di Charlie Hebdo del 2015.
In un mondo frammentato come quello islamico accadde più volte nel corso della storia che una determinata fazione, guidata da un leader carismatico, tentasse di assumere il comando simbolico e politico-religioso dell’Islam e per divenire la principale figura di riferimento per i musulmani di tutto il pianeta. Uno degli ultimi esempi è Abu Bakr al-Baghdadi, comandante supremo dello Stato Islamico, suicidatosi durante una incursione dei Navy Seals americani nel 2019. Il leader del Daesh era divenuto tra il 2014 e l’anno della sua morte un personaggio molto rispettato tra i radicalizzati islamici di tutto il mondo, spesso musulmani europei in cerca di una guida, i quali si incamminavano per lo Sham, il Levante, con le sue promesse di gloria eterna e redenzione nel martirio per la Jihad. Nel sunnismo l’assenza di una istituzione comunemente riconosciuta spesso permise la spontanea emersione di nuovi “guru” e nuove guide per gli estremisti; nello sciismo iraniano invece, l’intensità dell’antioccidentalismo è sempre dipesa dalla guida teologica e politica del paese. Verso la fine degli anni ‘80, a quasi un decennio dalla rivoluzione, Khomeini necessitava di un'azione simbolica per catturare nuovamente l’attenzione e la stima del mondo popolare musulmano, ormai sommariamente affascinato dai ribelli sunniti afghani (Mujahideen) che stavano per cacciare definitivamente i comunisti sovietici dalla loro patria, in quanto rappresentanti di un ateismo corrotto dell’ateismo corrotto.
Ad un passo dalla ritirata definitiva dei russi dall’Afghanistan, il 14 febbraio 1989, Khomeini emise una fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie, con la quale lo condannò a morte e invitò tutti i fedeli musulmani ad ucciderlo per blasfemia contro il Corano e contro il Profeta.
Condannando a morte un cittadino britannico residente in Inghilterra l'ayatollah aveva aperto una nuova frontiera dell'Islamismo universale, ma per gli equilibri internazionali dell'epoca si trattava di un qualcosa di impensabile. La cacciata dei russi dall’Afghanistan passò in secondo piano di fronte all’azione del leader iraniano: il sunnismo dell’Asia centrale non sarebbe così divenuto il paladino di tutti i musulmani senza una guida. Considerare la rivalità tra il clero iraniano sciita ed i vari leader sunniti nel corso degli ultimi decenni è fondamentale per inquadrare il valore sociale e politico di questa fatwa.
Fatwa si potrebbe tradurre come “chiarimento”, “spiegazione”. Esse vengono emanate da una autorità religiosa islamica quando i fedeli chiedono un'indicazione particolare su come comportarsi per evitare di peccare nell’interpretazione delle scritture. Le fatwa spaziano in tutti gli ambiti della vita quotidiana dei fedeli, dall’igiene personale al matrimonio fino a questo eccezionale caso: la condanna a morte di un uomo, che può essere eseguita da ogni fedele.
L’uomo? Salman Rushdie, indiano, musulmano d’origine, ateo per scelta personale, naturalizzato britannico e scrittore del libro incriminato: “I Versi Satanici”.
Un romanzo, un libro di fantasia, che riprende però evidentemente la storia tradizionale del Profeta Maometto, al quale l’Arcangelo Gabriele avrebbe recitato il volere di Allah espresso nei versetti che poi composero il Corano. Nel libro, ambientato in un contesto contemporaneo, un certo Gibreel Farishta sogna di recitare i versi (come fece l’arcangelo Gabriele con il Profeta) al personaggio fittizio chiamato Manhound (nome utilizzato dai cristiani nel 1300 per riferirsi a Maometto come diavolo). Manhound però deforma a suo vantaggio questi versi, ripetendoli poi ai suoi seguaci affinché gli portassero piacere, ricchezza e potere. Un esempio di questo sabotaggio teologico sono i versetti che Manhound modifica sulla relazione tra l’uomo e la donna, specificando che il sesso maschile comanda quello femminile, e che l’uomo ha il diritto di colpire e punire la sua consorte.
È evidente che questa riscrittura fittizia delle origini del Corano implichi un disconoscimento di certi valori tradizionali musulmani, così come la messa in dubbio della provenienza divina delle stesse scritture sacre islamiche, che, per i fedeli di Allah, sono letteralmente la Parola di Dio.
Questa narrazione ha implicato, nella visione sciita capeggiata da Khomeini, il perfetto caso di un insulto pubblico al profeta, e una perfetta occasione per identificare un nemico preciso, infedele, traditore delle sue origini, blasfemo verso il Profeta per soldi e fama.
“La Rivoluzione iraniana era instabile da quando Khomeini era stato costretto, come egli stesso aveva detto, a “bere il calice del veleno” e ad accettare la fine ingloriosa della sua guerra in Iraq, che aveva lasciato una intera generazione di giovani iraniani morti o menomati. La fatwa era per lui un modo di riacquistare slancio politico , di infondere nuova energia nei fedeli. Essere l’ultima possibilità di riscatto dell’uomo agonizzante era stata la mia sfortuna.”
The Disappeared. How the fatwa changed a writer’s life di Salman Rushdie, 2012
Nei mesi successivi alla pubblicazione del libro Rushdie ricevette al telefono di casa le prime minacce di morte. Nel febbraio del 1989 in Pakistan duemila manifestanti si riunirono davanti all’Information Center USA di Islamabad per dimostrare contro lo scrittore urlando in coro “Impiccate Salman Rushdie!”. Alla polizia venne dato l’ordine di sparare sulla folla e a fine giornata si contarono cinque morti. Qualche ora dopo il conduttore radiofonico del canale del regime iraniano lesse un nuovo decreto dell’ayatollah Khomeini, una fatwa, che condannava a morte Salman Rushdie. Il mattino successivo lo scrittore fu prelevato dagli agenti di sicurezza inglesi e portato in una località segreta. Uno degli agenti disse a Rushdie: “Sarà tutto finito in pochi giorni”. Per i nove anni successivi fu costretto a vivere in clandestinità, fino alla morte di Khomeini nel ’98, che verso la fine dei suoi giornì disse: “Anche se Salman Rushdie si pente e diventa l’uomo più devoto di tutti i tempi, è doveroso per ogni musulmano usare qualsiasi cosa abbia a disposizione, la sua vita e la sua ricchezza, per spedirlo all’inferno.”
L’anno successivo il nuovo governo riformista dichiarò che l’Iran non avrebbe perseguitato lo scrittore e che il caso era “completamente chiuso”. Non tutti gli alti profili del governo e del clero erano d’accordo. Nel 1997 la fondazione rivoluzionaria iraniana 15 Khordad pose su Rushdie una taglia da 2,5 milioni di dollari, salita a 3,3 nel 2012. Ali Khamenei, attuale Guida Suprema dell’Iran dichiarò: “La lunga freccia nera è stata scagliata, e adesso sta viaggiando verso il suo bersaglio”.
All’epoca della pubblicazione del libro in tutto il mondo occidentale le librerie e gli editori che esponevano i “Versi” subirono ripercussioni, spesso con bottiglie molotov, allarmi bomba, minacce anonime. Perfino a Padova una libreria venne incendiata e altre quattro videro devastate le loro vetrine. Dal mondo letterario occidentale emersero opinioni contrastanti: alcuni criticarono Rushdie per la sua “irriverenza” ed “importunità”; altri, invece, lo esaltarono come paladino della libera espressione e denunciarono a loro rischio e pericolo l’ingerenza della fatwa iraniana.
Anthony Burgees, lo scrittore di “Arancia meccanica”, disse: “Ordinare ai figli del Profeta indignati di uccidere Salman Rushdie e i direttori di Penguin Books sul suolo britannico equivale a una jihad. È una dichiarazione di guerra ai cittadini di un paese libero e come tale è un atto politico. Deve essere contrastato con una dichiarazione di sfida altrettanto schietta, anche se meno omicida.”
In Belgio il mullah Abdullah al-Ahdal e il suo vice Salem el Behir furono assassinati per aver detto che, a prescindere dalle affermazioni di Khomeini, a uso e consumo degli iraniani, in Europa vigeva la libertà d’espressione.
Più di trent’anni dopo la lunga freccia nera finalmente ha colpito, per fortuna senza effetti fatali, il bersaglio designato, attraverso le mani di un giovane americano di origini libanesi: Hadi Matar.
L’attentatore ventiquattrenne è nato nel New Jersey, non esattamente la patria del radicalismo islamico.
La madre ha raccontato sconvolta all’FBI ciò che sapeva delle convinzioni ideologiche e religiose del figlio, della sua cronica solitudine a seguito di un viaggio in Libano nel 2018 per rivedere il padre, tornato nella terra d’origine dopo il divorzio. “È tornato fanatico” ha affermato la madre, ricordando di come la sgridasse per non aver ricevuto l’educazione religiosa severa e gli insegnamenti morali che aveva scoperto in Libano. Il padre vive a Yaroun, una cittadina che ospita diversi gruppi ed esponenti di Hezbollah, il partito libanese sciita satellite del governo rivoluzionario iraniano. Per le strade ci sono gli stendardi del partito, le foto dei martiri, e un enorme murale del generale Soleimani, ucciso a inizio 2020 per ordine dell’allora presidente statunitense Donald Trump. Sul suo cellulare la polizia ha trovato diverse foto del generale, postate anche sui social come tributi di rispetto e stima al più recente martire della causa sciita.
Al momento dell’arresto Matar era in possesso di una patente falsa, il cui nome è una composizione di quelli di altri due “eroi” per il radicalismo sciita: Hassan Mughniyeh. Il doppio riferimento è ad Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, e a Imad Mughniyeh, numero due del partito sciita libanese, ucciso nel 2008 in un’operazione congiunta dei servizi segreti statunitensi e israeliani in Siria.
Matar non sembra un killer, né un attentatore commissionato dall’Iran, che ha negato ogni coinvolgimento nell’attacco. È certamente un giovane fanatico, avvolto nel disgusto per l’occidente e la cultura dove è cresciuto. Si è immerso nell’estremismo sciita dominante nel paese natale del padre, per poi forse identificarsi coi suoi idoli, il generale Soleimani ed i capi di Hezbollah. Ha negato di avere contatti con i Guardiani di Rivoluzione iraniani, dichiarando di aver agito da solo poiché Rushdie ha “insultato l’Islam”. Si è poi dichiarato non colpevole alle prime udienze in tribunale.
Non è ancora possibile al momento affermare con certezza quale sia la verità, per quanto gli indizi al momento puntino tutti verso un attacco pensato e attuato unicamente da Matar. Questo evento ci permette però di riflettere su un problema dal quale l’Occidente si illudeva di star fuggendo. Con gli accordi sul nucleare del 2015, interrotti nel 2018 durante l’amministrazione Trump, ma ripresi l’anno scorso da Joe Biden, la rivalità fra gli Stati Uniti e l’Iran sembrava stesse lentamente e gradualmente diminuendo. Sul piano politico la maggioranza degli analisti sarebbe d’accordo con questa affermazione, ma non dobbiamo dimenticare che in un paese come l’Iran la politica si interseca sempre ed inevitabilmente con la componente religiosa, della quale non sempre siamo in grado di comprendere né le meccaniche, né l’effettiva influenza che essa ha sulla comunità. La fazione sciita estremista, come dimostrato dall’attentato di qualche giorno fa, non si limita ai confini nazionali dell’Iran, ma attraversa gli oceani e i continenti, sull’onda del radicalismo online, per raggiungere le orecchie di tanti fanatici in attesa solo dell’approvazione altrui.
Oggi come trent’anni fa la sfida è sempre la stessa: quale sarà la nostra risposta ai dispotismi contro la libertà d’espressione? Questo 2022 si sta rivelando un anno pieno di nuove minacce per la libertà, e stupiscono le affermazioni noncuranti di personaggi come l’ex presidente russo Medvedev, che qualche giorno fa ha affermato: “Vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi, ma anche chiamarli a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità. Soprattutto, se il prezzo della democrazia europea sono appartamenti freddi e scaffali vuoti dei frigoriferi, questa ‘democrazia’ è per pazzi”.
È davvero pazzia quella di chi è disposto a soffrire, essere perseguitato e rischiare la propria vita pur di non rinnegare ciò in cui crede fermamente? Salman Rushdie al momento è in condizioni stabili, ma quanti sono stati i martiri della libera parola? Quanti corpi, con nomi e volti o senza identità, hanno costituito le fondamenta delle nostre democrazie? Sulla lapide di March Bloch, il grandissimo storico e partigiano francese fucilato nel ’44 dalla Gestapo, si legge l’incisione “Dilexit Veritatem”: “Ha amato la verità”. Per rispondere in coro alla pazzia di cui Medvedev accusa l’Occidente, alle dichiarazioni di blasfemia e alle condanne di Khomeini e Khamenei, l’epitaffio con cui ci ha lasciato Bloch è un invito dall’oltretomba a lottare per la democrazia nelle sue difficoltà, nell’infinità delle deplorevoli realtà violente che vi rientrano. L’unica verità di cui si è dilettato Bloch è quella che rispetta e riconosce la realtà come scontro e comunione tra punti di vista differenti, all’interno dei quali rientra anche la convivenza e l’integrazione tra la comunità orientale e quella occidentale. La “guerra santa” della letteratura è difendere fino alla morte, fino al rogo dei propri libri, il perpetuo scontro tra le opinioni, senza che si stabilisca mai una fredda, gelida, mortale pace imposta dall’alto. La letteratura può e deve dimostrare al mondo che non siamo semplici epigoni dei valori libertini dei nostri padri, frutti tardivi di una moda novecentesca ormai debole e antiquata, bensì che ancora oggi possiamo riscoprirci appassionati amanti della democrazia. Una democrazia all’interno della quale l’islamofobia è un fanatismo inaccettabile tanto quanto lo sciismo radicalizzato di Matar.
È semplice e spaventosamente dilettevole difendere e predicare la libertà d’espressione quando non si ha un coltello alla gola… o al fegato, o all’addome. Siamo anche noi disposti a tutto per mantenere vivi i nostri dubbi, per alimentare avidamente le nostre incertezze, le nostre insicurezze, i nostri dilemmi etici, esistenziali e religiosi? Siamo davvero disposti a patire, esser perseguitati e tormentati o uccisi pur di non inginocchiarci ad una verità univoca, dispotica, e comodamente indiscutibile? Sorge dolorosamente spontaneo il dubbio: la libertà di parola ci serve per essere certi di poter sempre dire cosa ci passa per la testa? Per essere assicurati che la nostra persona non sia mai in pericolo per una parola di troppo? O perché crediamo veramente che la pluralità delle opinioni, in tutte le loro forme, possa arricchire il dibattito delle idee? Questa domanda non deve mai e poi mai lasciarci in pace. Solo una democrazia capace di emergere rafforzata nei suoi principi da attacchi come questo può sperare di continuare il suo cammino sana, se non salva.
Grazie, Salman. Buona fortuna
Paolo Zurlo
Bibliografia:
L’Iran dietro l’attentato a Salman Rushdie, Laure-Maissa Farjallah, L’Orient-Le Jour, Libano
La minaccia ricorrente del jihadismo sciita, Gilles Kepel, Le Monde, Francia
The Disappeared, Salman Rushdie, 1998
Chi ha tradito Salman Rushdie, Giulio Meotti, Il Foglio
Sitografia:
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