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Guerra e petrolio: il fragile equilibrio mediorentale

Il duplice conflitto bellico che Israele sta ingaggiando con, Hamas ed Hezbollah e le più ampie tensioni in Medio Oriente, stanno scuotendo lo scenario politico globale e generando inevitabili conseguenze sul commercio di petrolio e sul mercato dell'energia. Tuttavia, se confrontiamo questa situazione con altri recenti conflitti come la guerra in Ucraina, la reazione dei mercati energetici pare sorprendentemente composta. Un’analisi attenta di questo contesto ci permette di comprendere meglio come mai la congiuntura attuale sia percepita in maniera diversa, nonostante la posta in gioco resti altissima anche per le forniture energetiche mondiali.


Quando scoppiò la guerra in Ucraina nel febbraio 2022, i mercati energetici globali furono immediatamente colpiti. Le sanzioni contro la Russia, uno dei principali esportatori di gas e petrolio al mondo, crearono uno shock che si rifletté in un acceso dibattito tra i governi europei sulle fonti di approvvigionamento energetico. L'Europa, fortemente dipendente dal gas naturale russo, si trovò improvvisamente vulnerabile e costretta a cercare fonti alternative, mentre i prezzi del petrolio salirono vertiginosamente, superando i 100 dollari al barile.

Al contrario, la guerra in corso in Medio Oriente, pur coinvolgendo indirettamente uno dei poli più importanti per la produzione di petrolio, non ha provocato la stessa reazione sui mercati globali. Nonostante i combattimenti tra Israele e Hamas, gli attacchi di Hezbollah in Libano e la retorica infuocata che coinvolge l’Iran, i prezzi del petrolio non hanno subito un'impennata paragonabile a quella vista a seguito dell'invasione dell’Ucraina. Alcuni analisti, come Ben Cahill del Center for Strategic and International Studies (CSIS), sottolineano che il mercato globale sembra attualmente ben fornito, grazie in parte alla capacità di produzione inutilizzata dell’OPEC (il cartello commerciale che raggruppa i principali paesi esportatori di petrolio tra cui Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Venezuela e altri). L’OPEC ha mantenuto una politica di produzione relativamente conservativa nonostante le tensioni,  assicurando che ci sarà abbastanza capacità di riserva per compensare eventuali interruzioni.

Dall’altro lato, questa reazione più moderata può essere attribuita a una serie di fattori strutturali, come, per esempio, l’esperienza accumulata dai mercati nel gestire crisi geopolitiche che coinvolgono i grandi produttori di energia mediorientali.


Ricordiamo il caso del grande shock petrolifero del 1973, quando l'OPEC interruppe le forniture di petrolio verso le nazioni occidentali che avevano appoggiato Israele nella guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria. Questa decisione portò a un aumento del 70% del prezzo del greggio, un'impennata che durò per cinque mesi, dall’ottobre 1973 a marzo 1974. Successivamente, il 7 gennaio 1975, i paesi dell'OPEC decisero di aumentare ulteriormente i prezzi del petrolio greggio del 10 percento.


Oggi vediamo un cartello decisamente più disunito: da un lato la lenta transizione ad altre forme di energia ne sta limitando l’influenza, ma ancora più decisivo è il disallineamento politico dei suoi membri. Nel dicembre 2018, il Qatar, uno dei membri storici dell'OPEC, annunciò l'uscita dall'organizzazione per concentrarsi sull'esportazione di gas naturale. Il Paese abbandonò ufficialmente il 1º gennaio 2019. L'anno seguente anche l'Ecuador lasciò l’OPEC, seguito dall’Angola nel gennaio 2024.

Secondo l’islamista Oliver Roy, questa guerra ha anche confermato un distacco decisivo dei paesi che un tempo formavano la sfera del panarabismo: gli stati del Golfo, l’Arabia Saudita, il Marocco e l’Egitto, pur condannando pubblicamente le conseguenze delle operazioni israeliane sui civili, non sono più disposti a spendersi politicamente ed economicamente per la causa palestinese. Questo si riflette in una forza ridotta del cartello, i cui membri, eccetto l’Iran, non sono interessati all’etichetta dell'Asse della Resistenza: la coalizione  anti-israeliana fra il regime degli Ayatollah e le milizie fondamentaliste in Siria, Iraq, Yemen, Libano e Palestina.


A prescindere dal paragone con la guerra in Ucraina, le instabilità mediorientali hanno indubbiamente aumentato la volatilità del greggio, il cui prezzo ha reagito perlopiù ai singoli eventi che hanno aggravato le tensioni nella regione. Il 7 ottobre 2023, a seguito dell’attacco di Hamas, il prezzo al barile aveva superato i 90 dollari. Similmente, quando l’Iran ha attaccato Israele ad aprile, quando Hezbollah ha intensificato gli attacchi dal Libano o quando il presidente Biden ha fatto riferimento a una possibile operazione israeliana contro le infrastrutture petrolifere iraniane, il prezzo del Brent (petrolio greggio di riferimento europeo) ha registrato un incremento, arrivando a toccare circa 81 dollari al barile, segnando così una crescita di oltre il 10% rispetto alla media del periodo.

Molti temono che una possibile guerra aperta tra Iran e Israele possa avere un impatto drastico sul mercato energetico, tuttavia esperti come Kevin Book, senior adviser presso il Center for Strategic and International Studies, ritengono che il mercato non sia eccessivamente surriscaldato, principalmente grazie alla sopracitata politica conservativa degli stati OPEC, soprattutto da parte dell’Arabia Saudita. Questo significa che anche in caso di un’interruzione delle esportazioni iraniane, il cartello potrebbe potenzialmente compensare la perdita, evitando aumenti di prezzo eccessivi.

L’Iran mantiene comunque un ruolo strategico non solo come produttore, ma anche come potenziale destabilizzatore di cruciali rotte commerciali, come lo stretto di Hormuz, attraverso cui transita circa il 30% del petrolio marittimo mondiale. Le milizie vicine all’Iran, in particolare gli Houthi in Yemen, potrebbero colpire i traffici petroliferi nel Golfo Persico, fatto che potrebbe causare un’escalation del conflitto e portare a un drastico aumento dei prezzi. Finora, nonostante le minacce, queste azioni non si sono concretizzate in un blocco reale o in attacchi su larga scala alle infrastrutture petrolifere. La presenza di forze internazionali nel Golfo e la crescente interconnessione tra i produttori di petrolio, come dimostrato dal recente accordo di pace mediato dalla Cina tra Iran e Arabia Saudita, sembrano aver contenuto il rischio di un’escalation energetica incontrollata. L'Iran e le sue milizie alleate sembrano essere consapevoli del fatto che attacchi diretti alle infrastrutture petrolifere danneggerebbero anche i loro stessi interessi economici, oltre che quelli degli Stati del Golfo.

Il conflitto in Medio Oriente ha inoltre sollevato interrogativi su quanto ancora il mondo dipenda da questa risorsa e, nonostante la transizione energetica in corso, il petrolio continui a essere una delle principali fonti di energia nel mondo. La domanda globale rimane alta, alimentata soprattutto dai paesi in via di sviluppo e dalle necessità energetiche crescenti di paesi come la Cina e l’India. Secondo le stime dell'International Energy Agency (IEA), la domanda di petrolio globale ha raggiunto circa 101 milioni di barili al giorno nel 2023, e questa risorsa rimane fondamentale per il funzionamento delle economie moderne. Anche se si parla sempre di più di fonti di energia rinnovabile, la capacità di sostituire il petrolio, soprattutto nel breve periodo, è ancora limitata. Inoltre, le recenti crisi geopolitiche hanno dimostrato che, in assenza di fonti energetiche affidabili, il petrolio continua a rappresentare una risorsa strategica d’emergenza, in particolare per l'Europa.


Nel contesto della guerra in Ucraina, il Vecchio Continente ha già dovuto affrontare un’enorme sfida nel ridurre la dipendenza dal gas russo, e lo stesso vale per il petrolio. Se nel 2022 però la Russia ha scosso tutto il mercato energetico europeo, in Medio Oriente è come se i paesi produttori di petrolio si fossero ‘rassegnati’ alla coesistenza con i conflitti e le costanti tensioni al limite. Quella dalla Russia era una dipendenza strutturale e quasi integrale per l’UE, che si è interrotta con un trauma improvviso; dai paesi OPEC invece, sebbene in proporzioni nettamente inferiori, la dipendenza europea resta imperterrita nel tumulto della guerra.  l’Europa ha cercato di limitare e diversificare  le importazioni di petrolio con la Russia, ma  non si può dire lo stesso dei paesi mediorientali: secondo i dati recenti, l'UE  importa ancora circa il 70% del suo petrolio, di cui una parte significativa proviene da paesi dell’OPEC.

Dopo un tragico anno di guerra a Gaza, nonostante i recenti attacchi in Libano e i più ampi scontri tra Israele e l'Iran, osserviamo un mercato energetico ormai quasi apatico. Certo ci sono stati picchi nel prezzo al barile nel corso del 2024, tuttavia di recente nemmeno l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar ha toccato particolarmente la sensibilità economica del mercato, lasciando il prezzo del greggio sui 69 dollari.

L’analisi del mercato del petrolio è in fondo un indizio che questo tragico conflitto è destinato a durare.


Paolo Zurlo


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