Cosa vuol dire fare arte? Cosa intendiamo con arte?
Tommaso D’Aquino definì ars come recta ratio factibilium, ovvero la “corretta ragione delle cose da fare”, insomma, un “saper fare”: non semplice astrazione, perché l’astrazione non possiede alcun valore estetico. Nell’arte si esprime l’astratto attraverso il concreto, la forma attraverso la materia, l’universale attraverso il particolare, un’attività tutta umana che tenta con tutte le sue forze di dar voce all’indicibile, di dar corpo all’essenza delle cose. È atto libero, espressione ultima dell’essere umano, scevra d’ogni utilità, da ogni regola: Freud la definirebbe come “sublimazione della nevrosi”, tentativo di far convergere le ansie e le pulsioni libidiche in qualcosa di costruttivo, di positivo, ma io credo si tratti di una pura esigenza, una necessità cui l’uomo non può sottrarsi. La nevrosi è normalità, è sintomo dell’esistenza, nella modernità più che mai: l’arte è la testimonianza ineluttabile del nostro essere nel mondo.
Se vediamo l’arte come atto libero, pura espressione, possiamo limitarla? Possiamo permetterci di incatenarla, di imprigionarla, senza renderci così oppressori di noi stessi? Un esempio è Clet Abraham, artista francese attivo in Italia dal 1990 e noto per le sue opere provocatorie, come il “Cristo crocifisso” applicato sul segnale indicante vicolo cieco e il suo autoritratto posizionato di nascosto nella collezione Loeser di Palazzo Vecchio. Tuttavia la sua opera più celebre è di certo l’Uomo comune, statua in metallo ancorata senza permesso al Ponte alle Grazie di Firenze e raffigurante un uomo stilizzato che procede verso il vuoto: l’artista, condannato a oltre diecimila euro di multa, ha fatto appello all’articolo 33 della Costituzione Italiana, in cui è affermato che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. La Street Art, di cui Clet è esponente, si trova in bilico (un po’ come l’Uomo comune) tra Arte e Vandalismo, tra libertà e illegalità, ma la linea è sottile, evanescente. Tutto sta nella domanda: “Cos’è l’arte?”. È davvero atto puro, atto libero, se deve sottostare all’approvazione del governo, delle autorità? Nei social dell’artista si legge “Obeying is not a virtue, but is it a vice?”. L’obbedienza, se tradisce la nostra natura, la nostra umanità, la nostra libertà, diviene un vizio? La democrazia, struttura critica per definizione, sempre tesa nel tentativo di mettere in accordo ciò che è separato, è terreno fertile per l’arte, o rischia di farla appassire nel tentativo di mantenere ordine nella grande confusione che caratterizza noi uomini?
Il lockdown e le misure di emergenza prese per fronteggiare la crisi sanitaria causata dalla pandemia hanno messo in luce -incorniciato, oserei dire- la totale noncuranza del nostro governo per il settore dell’arte, dello spettacolo, della libera espressione, gettata in un angolo per far spazio ad una caotica informazione giornalistica per proiettare tutta l’attenzione sul settore dello sport, della ristorazione, e in misura minore dell’educazione. La scelta di chiudere i teatri, i musei, le mostre, ha sottolineato con violenza la “sacrificabilità” della cultura, a differenza dei luoghi di culto, nonostante essa sia il tempio della religione umana, il rito che rende luminosa ed evidente l’essenza del nostro esistere come comunità, come soggetti in comunicazione costante, come individui che necessitano di poter rappresentare e rappresentarsi.
Oggi siamo così, uomini comuni, sospesi nell’infinito, nel vuoto, nell’incertezza, tentando di essere quotidiana evidenza del nostro essere liberi, e tuttavia ancorati, legati, incatenati da un ambiente politico e sociale ostile alla stessa natura umana. Elif Batuman, ne L’idiota, vede come la forma del romanzo (e dunque l’arte) rifletta “la lotta del protagonista per trasformare la sua data esperienza arbitraria in una narrazione che sia significativa”. Limitare l’espressione artistica, mi chiedo dunque, non vuol dire forse togliere significato all’esperienza umana?
Vanessa Morelli
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