Il giornalismo americano non ha reagito adeguatamente a Trump; tuttavia, avendo compreso le caratteristiche della sua campagna mediatica e della sua propaganda, si possono prendere delle contromisure.
Al termine di quattro anni con Donald J. Trump alla guida della Casa Bianca, la stampa era stata più e più volte sconfitta nello scontro col governo: diversi scandali che qualche decennio fa avrebbero rovinato la carriera di qualsiasi politico sono passati praticamente inosservati e quanti sono finiti sotto i riflettori del grande pubblico non sono risultati in alcuna presa di responsabilità. La sfida più grande della storia del giornalismo americano è stata persa, ma quest’ultimo è sopravvissuto: è quindi necessario capire come difendersi da questo tipo di campagna mediatica, per impedire a un personaggio simile di occupare la carica più importante del mondo occidentale. Sia chiaro, in questa sede non si discutono le idee politiche di Trump, o del Partito Repubblicano, coi propri meriti e difetti (come quelle dei rivali, d’altronde), quanto il trattamento che il primo ha riservato alla stampa, uno dei pilastri che sostiene ogni democrazia liberale.
Per capire i tratti principali della politica mediatica trumpiana è necessario guardare a come egli si sia distinto tra gli altri candidati alla presidenza nella campagna elettorale del 2016. Egli, infatti, magnate dell’immobiliare e imprenditore discutibile, in grado di ottenere tanto ammirabili successi quanto fallimenti improbabili, aveva mostrato poco fedeltà al partito, oscillando negli anni 2000 tra riformisti, democratici e indipendenti, per poi dichiarare la sua fedeltà al Partito Repubblicano una volta per tutte nel 2011. Ad aumentare considerevolmente la sua popolarità furono le sue apparizioni settimanali sullo show di Fox News Fox & Friends, in cui iniziò a incarnare la figura di un politico “non politico”, lontano dai metodi e dalle regole dei colleghi a Washington e molto più vicino al sentimento popolare. Affermava senza timore né pudore le sue idee, presentandosi ai conservatori come l’uomo disposto a difendere le cosiddette “hard truths” e alimentando i loro dubbi nei confronti dell’amministrazione Obama attraverso la promozione di teorie cospirazioniste. L’appuntamento alla candidatura alla presidenza, seppur rinviato nel 2012, si profilava sempre più chiaramente sull’orizzonte, essendo egli diventato una delle figure più popolari del panorama conservatore populista americano.
Iniziata nel tardo 2015, la sua campagna elettorale fu rivoluzionaria e spiazzò non soltanto i suo rivali, ma anche il news media stesso. Egli fu infatti il primo ad applicare la tattica del “firehosing of falsehood”, letteralmente “scaricare falsità con una manichetta antincendio”. Questa, ispirata dalle tattiche bolsceviche dell’inizio del XX secolo e introdotta da Putin durante la Seconda Guerra in Ossezia del Nord nel 2008, è una tecnica propagandistica completamente nuova, che nessuno è ancora riuscito a contrastare efficacemente. Presenta quattro caratteristiche principali: la produzione di un alto volume di contenuti su più canali comunicativi, la creazione rapida, continua e ripetitiva di notizie, il disinteresse per l’adesione ai fatti reali e la noncuranza per la coerenza tra le proprie affermazioni presenti e passate. Se le prime due sono intuitivamente utili ai fini preposti, le ultime due sembrano errori imperdonabili. Uno degli adagi più vecchi della politica è “La verità vince sempre”. Pare però che questa affermazione non sia più valida nell’ambiente comunicativo dell’ultimo decennio. Infatti, tanto applicazioni pratiche quanto studi psicologici hanno svelato che questa tecnica è molto efficace. L’evidente vantaggio della mancata adesione all’oggettività è la possibilità di instillare nel pubblico la narrativa che si desidera e l’assenza di coerenza permette di professare la verità che al momento più conviene, senza pagarne un prezzo particolarmente alto. Normalmente un atteggiamento di questo tipo risulterebbe in una perdita di credibilità così grande da impedire un’applicazione efficace di quanto detto prima, però l’ambiente comunicativo odierno ha reso inefficaci tutti i meccanismi che precedentemente scoraggiavano questo comportamento. I lettori hanno sempre più difficoltà a distinguere tra il vero e il falso e spesso non approfondiscono le questioni che meno importano loro, affidandosi ciecamente alla testata che le pubblica. Questo è dovuto in parte alla sempre maggiore abilità dei falsificatori di ottenere fotografie e video contraffatti credibili e in parte al sovraccarico di informazioni cui i social media ci hanno sottoposto. Altri aspetti che favoriscono i propagandisti è la tendenza a ritenere veri messaggi che sono familiari, o che sostengono l’opinione che già abbiamo sulla questione, o che sono presentati come risorse credibili. È stato anche dimostrato che il pubblico tende a ritenere vera una notizia se il giornalista presenta delle prove (specie statistiche) della sua affermazione, a prescindere che queste siano poi vere o create ad hoc. Infine la contraddizione è diventata un pericolo sempre minore per i politici, in parte per la compensazione operata dalle altre tecniche comunicative, in parte per la tendenza ad accettare i dietrofront se sostenuti da una ragione credibile.
L’applicazione di questa tecnica da parte di Trump dal 2015 a oggi è stata magistrale. Sebbene egli non potesse usarla come la Russia per ampliare la base del proprio consenso, data la naturale resistenza di emittenti come ABC, MSNBC e CNN e testate come The New York Times e The Washington Post a sostenere tale campagna, egli riuscì grazie all’aiuto di Fox News e dei suoi account Facebook e Twitter a fidelizzare la base elettorale repubblicana, rendendosi quasi invulnerabile a ogni tipo di responsabilità personale per eventuali errori o comportamenti inappropriati. Questo fenomeno ebbe il suo culmine il giorno dopo l’insediamento di Trump. L’allora Portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, mentì spudoratamente sul numero di partecipanti all’evento, affermando che si trattasse del più grande pubblico ad aver mai assistito alla cerimonia. Dimostrare che questo fosse una menzogna non era complicato: non solo il confronto tra le fotografie del 2009 (insediamento di Obama) e del 2017 provavano oltre ogni ragionevole dubbio il numero minore di partecipanti, ma anche ogni altra statistica raccolta quel giorno andava nella stessa direzione. Molti giornalisti al sentire queste parole storsero subito il naso, ma Spicer non rispose a nessuna domanda, causando grande clamore nel news media. L’indomani, su MSNBC, venne intervistata a proposito Kellyanne Conway, la direttrice della campagna elettorale di Trump. In risposta alle pressioni del reporter Chuck Todd, ella, dopo aver attaccato questi per una notizia falsa promulgata da un giornalista del magazine TIME, rispose orwellianamente :“Sean Spicer, il nostro Portavoce, ha fornito dei fatti alternativi.” Sebbene questa dizione venga usata in ambito legale per descrivere una situazione dove si confrontano diverse ricostruzioni di un evento sulla base dei medesimi dati da parte di accusa e difesa di fronte a un giudice, in questo contesto si trattava di un’affermazione che mina la base stessa del giornalismo e gli affibbia inevitabilmente una posizione politica. Infatti, non solo la Casa Bianca stava contestando dati statistici verificati, la stessa Conway parve essersi dimenticata che tra le affermazioni di due fazioni politiche i giurati non possono che essere i reporter, dichiaratamente neutri. La dizione “fatti alternativi” all’epoca poteva essere scambiata per un’espressione sfortunata, ma divenne ben presto chiaro che l’amministrazione Trump non si sarebbe adeguata ai normali rapporti tra politica e stampa. Per il Presidente la sola scelta di adesione o meno alla verità fattuale diventava una dichiarazione politica e una testimonianza del tanto chiacchierato liberal bias nel giornalismo. Chi si ostinava a contraddirlo era bollato come fake news, a prescindere dal merito della critica; chi invece lo celebrava e diffondeva il suo messaggio riceveva la sua approvazione e la sua pubblicità. Così emittenti come CNN e ABC vennero inserite nella lista nera, mentre la vecchia amica Fox News divenne il punto di riferimento di tutti i suoi sostenitori. Trump minacciava di sabotare l’intero discorso politico democratico, negando la presenza di verità al di fuori di quanto lui stesso affermava e rendendo così inefficace qualsiasi tipo di confronto tra i due partiti, e di trasformare il giornalismo da supervisore neutro a partito politico. Di fronte a questa minaccia esistenziale, il news media doveva dare una prova di forza senza precedenti.
Purtroppo non fu così. La risposta di quasi la totalità delle organizzazioni giornalistiche non conservatrici fu un fact-checking compulsivo. Sebbene questa tattica anti propagandistica avesse funzionato in passato, si tratta di una misura sostanzialmente inadeguata nel combattere il firehosing. Come si può evincere dallo studio del fenomeno, verificare le affermazioni del Presidente è completamente inutile, anzi radicalizza ancora di più quanti sono caduti sotto la sua influenza. Vedendo l’accanimento con cui il mainstream media e il “deep state” cercano di screditare Trump, i suoi sostenitori serrano i ranghi e si immergono sempre di più nell’universo parallelo che egli creava per loro. Il fanatismo che anima chi sostiene pienamente l’ex presidente è stato ampiamente dimostrato dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, dove le accuse infondate di aver truccato le elezioni hanno portato al sacco di uno dei più grandi templi della democrazia mondiale.
Sebbene sia facile criticare ex post facto, l’atteggiamento del news media americano era comprensibile all’epoca. Lo studio più importante sul firehosing fu pubblicato dalla RAND Corporation nel 2016, quando la strategia “anti-Trump” delle varie emittenti e testate era già ben definita. Inoltre, il fact-checking era comunque un metodo apprezzato dal pubblico non conservatore, che voleva venire in possesso degli strumenti necessari a confutare le affermazioni rivali, e riscuoteva un discreto successo negli ascolti. Per di più, lo stesso Esercito degli Stati Uniti impiegò tre anni a implementare, perfezionare ed esporre la strategia utilizzata per contrastare la campagna di disinformazione delle forze rivali nel contesto geopolitico mediorientale.
Pur giustificato, il comportamento del news media si è rivelato inefficace: è quindi necessario proporre nuove soluzioni. In base agli studi psicologici e sociologici svolti e alle osservazioni empiriche a loro disposizione, sia l’Esercito statunitense che la RAND Corporation hanno elaborato dei comportamenti da seguire in questi scenari. Il primo ha messo al centro delle proprie contromisure l’idea che bisogna combattere gli effetti del fenomeno, non le sue cause, essendo queste fuori dal suo controllo. Suggerisce quindi di aumentare la coordinazione tra le varie agenzie governative e tra gli alleati della loro coalizione, al fine di sfruttare la molteplicità delle fonti e la coerenza delle loro posizioni per aumentare la loro credibilità. Inoltre, si comunicare di comunicare in anticipo alcune informazioni agli uffici stampa, specie quelle riguardanti le operazioni di routine, cosicché siano le loro forze, e non quelle avversarie, a dettare la narrativa a cui aderire o reagire. La RAND Corporation adotta un approccio differente, dovendo fornire dei consigli a organizzazioni su cui non ha alcun controllo diretto e che hanno modus operandi alle volte sostanzialmente differenti. La prima indicazione è quella di porre un preavviso prima della notizia falsa o inattendibile. Questo permette di avere la precedenza nell’ordine di contatto del lettore con le informazioni e quindi mettere in una posizione di svantaggio il contenuto propagandistico. La seconda raccomanda di ripetere frequentemente la confutazione dell’elemento disinformativo. La terza, poi, sollecita di fornire al proprio pubblico una versione completa della storia com’è realmente accaduta, in modo da rendere più facile per il pubblico il ripudio della notizia fabbricata. Infine si suggerisce di anticipare quando possibile le agenzie propagandistiche, come consigliato anche dall’Esercito, e di condurre una campagna di sensibilizzazione sugli strumenti usati dai propagandisti per ingannare il loro pubblico.
La risposta al firehosing sarà cruciale per la politica dei prossimi anni. Personaggi fortemente ispirati a Trump e alle sue tattiche sono già saliti al potere in diversi Paesi con risultati disastrosi, specie durante la pandemia (si veda il Brasile di Jair Bolsonaro). Senza una diffusione capillare delle strategie con cui contrastare questa minaccia si assisterà a un indebolimento del giornalismo in tutto il mondo e alla conseguente perdita della responsabilità politica dei rappresentanti dei cittadini. In assenza di storie eroiche come Watergate è facile dimenticarsi del ruolo della stampa nel processo democratico, ma senza di essa la democrazia non sarebbe altro che demagogia e il fatto una posizione politica. Come disse Orwell: “La libertà è la libertà di poter dire che due più due fa quattro. Se ciò è garantito, tutto il resto ne consegue.” Senza una risposta adeguata al firehosing, la stampa non potrà più affermarlo così tranquillamente.
Mathias Caccia
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