Chi avrebbe mai pensato che, a più di 150 anni dalla fine della guerra civile americana, dentro le mura del Campidoglio si sarebbe sventolata la bandiera della Confederazione sudista?
Sebbene questo scenario sembri immaginabile solo in un telefilm à la “Uomo nell’alto castello”, è proprio quello che è accaduto il 6 gennaio 2021, quando un gruppo di manifestanti pro-Trump ha fatto irruzione nel tempio della democrazia americana per protestare contro la ratifica della vittoria di Joe Biden alle elezioni dello scorso novembre.
L’evento ha portato a un bilancio finale di cinque morti e una cinquantina di feriti, oltre che danni materiali all’edificio, ma in sé si è concluso in poco tempo, nonostante che il Campidoglio, in quel momento, fosse mal difeso e sguarnito della protezione necessaria.
Tutto ciò apre però a una riflessione molto più profonda sullo stato di salute di una democrazia, quella americana, che, anche nei momenti più bui, è sempre riuscita a risollevarsi.
A chi va imputato il declino, se di declino è corretto parlare, del sistema politico statunitense? A Trump? Ai democratici? Alle tech companies?
Si potrebbe in effetti sostenere che la propaganda anti-establishment e anti-Washington che il presidente ha tenuto fin dalla sua prima campagna elettorale ha potuto in qualche modo giustificare l’escalation degli ultimi giorni; così come è ipotizzabile che l’atteggiamento presuntuoso tenuto dai leader democratici nei confronti degli elettori repubblicani abbia catalizzato una reazione così inaspettatamente violenta.
Un’analisi approfondita del fenomeno americano non si può fermare alla contingenza degli ultimi eventi, e nemmeno degli ultimi quattro anni.
Le fratture politiche americane, che sembrano essere nate con la globalizzazione, in particolare quelle fra le ricche metropoli posizionate sulle due coste, e un immenso territorio rurale nel centro e nel sud, trovano la loro origine ben più lontano nel tempo.
In particolare, queste stesse divisioni provengono da una mai completata pacificazione che si rinviene già dalla guerra civile degli anni 1861-1865, quando l’America si era trovata spaccata tra gli stati schiavisti del sud e quelli abolizionisti del nord.
Non voglio certo sostenere che la frattura che oggi si consuma opponga ancora schiavisti e antischiavisti, o razzisti e antirazzisti come una certa propaganda vorrebbe far passare.
Quello che si nota, però, è l’opposizione tra quel sodalizio che già era esistente all’epoca tra i centri industriali (prima), e finanziari (poi) posti agli estremi Est ed Ovest, opposto a una mentalità ancora profondamente agricola nelle zone del mezzo.
I rappresentanti di quest’ultima hanno trovato in Donald Trump (ironicamente, ricco magnate newyorkese) il loro condottiero, il nuovo generale Lee che avrebbe condotto gli eroici difensori della libertà alla vittoria sui cupi plutocrati di Boston e Los Angeles.
Con il loro condottiero lasciato agonizzante dopo la battaglia dello scorso novembre, i più intransigenti tra i suoi elettori hanno tentato l’ultimo assalto, questa volta non metaforico, al palazzo simbolo della corruzione di Washington, nel momento in cui si stava consumando il tradimento ultimo del volere di quella parte di America che a lungo era rimasta in una posizione secondaria.
Questi hanno quindi deciso un ultimo assalto oltre le rive del fiume Potomac (fiume che attraversa la capitale americana e che, al tempo della guerra civile, segnava il confine tra Sud e Nord), assalendo il Congresso in sessione plenaria.
Per concludere, suonano ancora attuali le parole a Karl Marx, quando dice che “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”.
Come Gettysburg 160 anni fa, sembra che questa parte di America si ritroverà una volta ancora schiacciata dal peso del progresso della storia, e che questi avvenimenti rivelano, in modo evidente, il ritorno imminente degli Stati Uniti rurali nelle retrovie del sogno americano.
-Edoardo Cozzi
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