Esattamente 30 anni fa, il 19 luglio 1992, un attentato mafioso costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, in quella che passò alla storia come Strage di via D'Amelio. Antonino Vullo, il sesto uomo della scorta del giudice, fu l'unico sopravvissuto: scampato per il fatto che al momento dell'esplosione si trovava ancora all'interno dell'auto blindata, che stava parcheggiando. La strage avvenne a 57 giorni di distanza da quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, amico e collega di Paolo Borsellino, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. I due magistrati furono tra i più importanti rappresentanti del pool antimafia, in prima linea nella dura lotta contro l’organizzazione criminale di Cosa Nostra. Fu con il Maxiprocesso - per utilizzare un’espressione di Pietro Grasso, allora procuratore Nazionale antimafia - che il lavoro di Falcone e Borsellino divenne verità giudiziaria; iniziato nel febbraio del 1986 si concluse nel gennaio del 1992 con la sentenza della Corte di Cassazione, che confermò 346 condanne e 114 assoluzioni. Furono proprio questi importanti esiti a scatenare la violenta reazione dell’associazione di stampo mafioso, che cominciò ad organizzarsi per eliminare tutti i suoi più strenui avversari.
A trent’anni di distanza non c’è piena luce sull’attentato di via D’Amelio, come dimostra la recente sentenza del Tribunale di Caltanissetta, che ha assolto tre poliziotti dall’accusa di aver ordito quello che i giudici hanno definito “il più colossale depistaggio nella storia della Repubblica”, che dunque risulta tuttora senza responsabili. Per due imputati, Mario Bo e Fabrizio Mattei, caduta l’aggravante di aver favorito la mafia, è scattata la prescrizione; Michele Ribaudo invece è stato assolto nel merito. Tante domande rimangono ancora senza risposta, come chi ha azionato la bomba, o che fine ha fatto l’agenda rossa che il giudice portava sempre con sé, però una cosa la sappiamo: forse non spetta a noi fare giustizia e trovare la verità, ma di sicuro è compito nostro conservare la memoria di quanto è accaduto.
In questi anni migliaia di persone si sono recate alle celebrazioni della commemorazione, ma - denuncia l’agente superstite della strage in questione - da molti sono vissute come un momento istituzionale, non con il cuore. E che differenza c’è? Il discrimine è sostanziale, perché il momento istituzionale è una sola volta l’anno, invece con il cuore si commemora sempre. E qual è il miglior modo per farlo, se non quello di accogliere la sua eredità?
Chi era Borsellino traspare dal discorso da lui tenuto nella veglia di preghiera un mese dopo la morte di Giovanni Falcone, di cui riporto alcuni stralci, a parer mio molto significativi: La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa … Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborarono con la giustizia per le indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova incredibilmente il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli, accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone È VIVO!
Falcone era morto da appena un mese e Borsellino sapeva di essere il prossimo obiettivo di Cosa Nostra eppure, proprio in quel contesto, pronunciò queste parole, colme di speranza, che sarebbero poi passate alla storia come suo testamento spirituale. Nonostante i timori, il magistrato continuava il suo lavoro: È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti. Paolo Borsellino è morto trent’anni fa, ma noi oggi possiamo farlo rivivere attraverso di noi, facendo nostra la sua testimonianza di vita, e non serve essere magistrati o politici o forze dell’ordine per farlo, basta rinunciare nel nostro piccolo a tutte quelle mentalità mafiose che troppo spesso albergano in noi. Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.
Giorgia Ponticiello
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